Per il mese di giugno io mi permetto di suggerire "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?", di Philip Dick.

Nel 1992 la Guerra Mondiale ha ucciso milioni di persone, e condannato all’estinzione intere specie, costringendo l’umanità ad andare nello spazio. Chi è rimasto sogna di possedere un animale vivente, e le compagnie producono copie incredibilmente realistiche: gatti, cavalli, pecore... Anche l’uomo è stato duplicato. I replicanti sono simulacri perfetti e indistinguibili, e per questo motivo sono banditi dalla Terra. Ma a volte decidono di confondersi tra i loro simili biologici e di far perdere le loro tracce. A San Francisco vive un uomo che ha l’incarico di ritirare gli androidi che violano la legge, ma i dubbi intralciano spesso il suo crudele mestiere, spingendolo a chiedersi cosa sia davvero un essere umano... Tragico e grottesco assieme, il romanzo di Philip Dick racconta il panorama desolato della San Francisco del futuro, il desiderio di amore e redenzione che alberga nei più umili, trasformando il genere fantascientifico in un noir cupo e metafisico. Un’opera che ha influenzato la visione della metropoli futura e ha anticipato i dilemmi della bioetica contemporanea.
La sinossi è quella dell'edizione Fanucci.
E' un testo fondamentale per l'amante della narrativa di anticipazione, o fantascienza che dir si voglia. E' fondamentale andare indietro nel tempo agli anni in cui fu scritto, il 1968, per capire quanto fosse interessante la tesi, magari non nuova, ma ben sviluppata, dell'esistenza di organismi sintetici che hanno paura di morire e desiderano esistere in modi vari e differenti uno dall'altro, chi seguendo l'arte, chi nascondendosi, chi passando all'attacco dell'uomo che li bracca. L'individualità , i desideri, i timori sono figli di cervelli così evoluti da sovrapporsi agli umani e, in alcune cose superarli. Questa competizione è accentuata dalla società in cui si svolgono i fatti: morente, affaticata, figlia di un essere umano che forse ha generato il suo giusto successore ed erede. La banalità delle mie parole non rende giustizia ad un racconto che ha molto senso e molta ragion d'essere. Non è un testo privo di difetti, ma va letto e non ci si pente.